Testimonianza di un nostro volontario in Sicilia nei centri di accoglienza per i migranti

Sono arrivato nel campo Borgo la croce, un’ex masseria ristrutturata per diventare un agriturismo e poi riconvertita a CAS (centro di accoglienza straordinario).
Si trova lontano dal centro della città di Ragusa e dai suoi tipici “sali-scendi”; i 64 ragazzi, beneficiari del progetto di accoglienza, si spostano a piedi o in bicicletta. I bus sono pochi e le strade sono molto pericolose.
Gli ospiti del centro sono accomunati da un traumatico viaggio per raggiungere l’Italia , ma tra loro ci sono personalità, esigenze, culture e ambizioni diverse: chi cerca lavoro e per raggiungerlo è disposto a camminare per ore, chi prova a cimentarsi con l’italiano e ti chiede di correggergli gli esercizi sul libro di scuola e infine chi è stanco di aspettare una risposta dalla commissione e desidera ricevere qualcosa che giustifichi la sua permanenza in quel centro d’accoglienza. Molti mi descrivono i primi mesi nel centro come i più difficili, nei quali restavano in silenzio a pensare (e a non pensare), a isolarsi con il proprio telefono (strumento utile e dannoso allo stesso tempo). La vita al centro è scandita dall’arrivo di un furgoncino che porta i pasti caldi.
I beneficiari arrivano scaglionati e, uno alla volta, ritirano il pasto. È un’attività meccanica, che viene nobilitata dalla grande umanità e capacità relazionale del custode – Mr. Feda – una figura di riferimento per tutti all’interno del centro .
Mi sono occupato molto del corso di alfabetizzazione: ho sostituito per alcuni giorni l’insegnante preposta e ho potuto stabilire con alcuni ragazzi un’interazione sincera e speciale. Mi è capitato che alcuni ragazzi mi venissero a cercare dopo pranzo e dopo cena, per chiedermi chiarimenti sui verbi al futuro o sui pronomi. Ho visto in loro una forte motivazione nell’apprendere ciò che un domani potrà essergli utile.
Abbiamo spesso mangiato insieme e ci siamo confrontati sulle usanze e le culture dei rispettivi paesi. Ho spiegato loro che in Italia parliamo un’unica lingua con molti accenti diversi e che mangiamo determinati alimenti, con un’origine controllata ( non dobbiamo mangiare i gatti, come molti di loro vorrebbero ).
Poi abbiamo visitato Ragusa e il centro storico di Ibla, con le sue chiese e i suoi vicoli, che i ragazzi definivano “vecchi” e non antichi.
La conoscenza di alcuni beneficiari mi ha ricordato, ancora una volta, che ragionare seguendo banali stereotipi é il peggior errore che si possa commettere quando si parla di Integrazione e immigrazione: fin dal primo giorno ho trascorso molto tempo con Jonathan, camerunense di nascita, ma ragusano nel cuore, frequenta assiduamente la parrocchia dei salesiani e svolge attività di volontariato in ospedale con l’associazione Avo. Un esempio per i suoi compagni del centro, ma anche per noi.
Poi ho cosciuto Sueman, un ragazzo bengalese, che, dopo aver vissuto in Inghilterra per quindici anni, é stato rimpatriato nel suo paese per questioni legali. Ora cerca di tornare dalla sua famiglia.

È stata un’esperienza molto forte e diretta, ho ricevuto testimonianze intime e ho cercato di ricambiarle con un ascolto sincero e solidale .

In Sicilia, ho avuto la possibilità di visionare più strutture destinate all’accoglienza dei migranti : A Ragusa il CAS “Borgo la Croce”, a Comiso uno SPRAR per beneficiari vulnerabili (soggetti con patologie che richiedono un’assistenza socio-sanitaria periodica), a Petrosino uno SRAR per minori. Tutte queste esperienze mi hanno mostrato l’importanza e la complessità di ciò che significa accogliere i migranti sul territorio italiano.

praticare

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